Uno splendido woodburytype (chi non si ricorda di cosa si tratta può dare un’occhiatina qui) tratto da uno scatto del fotografo londinese William Downey ci mostra in tutto il suo fulgore una seducentissima Sarah Bernhardt nel ruolo dell’imperatrice bizantina Teodora, protagonista di uno dei più fortunati successi di Victorien Sardou.
Opulento e scandaloso, acclamato anche grazie a un accortissimo lancio pubblicitario che lo presentava come il più grande spettacolo del diciannovesimo secolo, Theodora ebbe la sua prima assoluta il 26 dicembre 1884 al Théâtre de la Porte Saint-Martin e fu un tale strepitoso successo che per soddisfare la spasmodica ricerca di biglietti in un anno se ne dovettero dare a Parigi 300 rappresentazioni, cui vanno aggiunte quelle proposte a Londra nel corso di un soggiorno che durò due mesi e che con ogni probabilità offrì l’occasione per la realizzazione della nostra fotografia. Theodora sarebbe poi stata portata in tournée per il mondo e nel 1902 la Bernhardt ne avrebbe proposto, con un allestimento almeno in parte nuovo, una ripresa altrettanto fortunata.
Figlia illegittima di una demi-mondaine e donna decisa a condurre una vita non sottomessa alle imposizioni della morale comune, incarnando la lasciva e sensuale imperatrice di Bisanzio la Bernhardt titillava la pruderie del pubblico giocando su evidenti quanto vaghe analogie biografiche fra personaggio e interprete. Come scrive John Stokes, nel 1884 la Bernhardt aveva compiuto quarant’anni e la sua capacità di dare scandalo non era mai stata più grande.
Theodora fu senza dubbio la più fortunata fra le numerose collaborazioni della grande attrice con Victorien Sardou. Non un grande scrittore ma di sicuro abilissimo confezionatore di successi teatrali, Sardou aveva capito da tempo quanto il pubblico poteva essere catturato dalle fastose ambientazioni storiche e con Theodora, che arrivava in un momento in cui anche per la Bernhardt era assolutamente necessario rimettere in sesto una situazione finanziaria preoccupante causata dalla sua maniera un po’ squinternata di fare l’impresaria, mise assieme una produzione di eccezionale complessità scenica, opulenta nei costumi e nei decori e grandiosa per l’uso estensivo delle scene di massa. Tutte le recensioni uscite dopo le prime rappresentazioni descrissero come sensazionale l’intero aspetto scenico della produzione, nella quale i parigini videro impiegati persino due leoni. Come ogni volta, Sardou seguì in ogni dettaglio la preparazione del debutto, assicurandosi un completo controllo sia dell’aspetto scenico sia di quello scenografico. Per parte sua, Sarah Bernhardt se ne andò (o forse disse solo di essere andata) addirittura in pellegrinaggio a Ravenna per vedere la sua imperatrice ritratta nel celeberrimo mosaico in San Vitale e per prendere ispirazione da essa per la propria interpretazione.
Avendo già sulle spalle la lettura di La Tosca, sconcertante polpettone in cinque atti da cui sembra impossibile che Illica e Giacosa (che solo per questa impresa meriterebbero di essere assunti nell’Olimpo dei geni) abbiano potuto trarre lo strepitoso libretto per Puccini, non ho nemmeno considerato l’idea di andarmi a leggere questa Theodora. Credo però che sia indifferibile, per quanto tremendamente complicato, cercare di riassumerne la trama, che da sola vale più di molte descrizioni.
Costantinopoli, anno di grazia 532. Nostalgica della propria passata vita di donna di piacere, l’imperatrice Theodora lascia ogni notte il palazzo alla ricerca di sempre nuove e lascive avventure. Travestita da popolana, vive così sotto il nome di Myrta notti di passione fra le braccia di Andreas, scultore ateniese, mentre di giorno appare ai sudditi come l’algida sposa di Giustiniano, che lei intimamente disprezza.
In quanto ateniese, Andreas è naturalmente democratico e non può che progettare di uccidere il tirannico imperatore. Rende così la povera Myrta-Theodora drammaticamente combattuta fra la necessità di avvisare il consorte (e con ciò conservare il trono) e quella di salvare la pelle all’amante. Presa fra questi due fuochi, Theodora viene per di più riconosciuta dal complice di Andreas, Marcellus, e per farlo stare zitto non trova di meglio da fare che ucciderlo conficcandogli uno spillone nel cuore.
Sepolto l’amico nel proprio giardino aperto sul Bosforo, Andreas giura vendetta contro l’odiata Theodora, senza sapere naturalmente che ci sta andando a letto tutte le sere. La sua beata ignavia dura fino a quando la vede apparire, in tutto il suo bizantino splendore, nella loggia imperiale dell’ippodromo di Costantinopoli. Riconoscendo sotto quell’abbagliante apparato la Myrta delle sue notti di passione, capisce finalmente tutto. Sconvolto, si fa arrestare mentre maledice l’ormai odiata donna.
Neppure rendendosi conto di cosa ha combinato, per riconquistare il cuore dell’incarcerato Andreas la perfida maliarda si reca negli angiporti che così bene conosce, da una zingara che le prepara un magico filtro d’amore. Si fa poi portare davanti al prigioniero e gli giura passione eterna, ricevendone però nuove maledizioni. Stremato dalle ferite che i soldati di Giustiniano gli hanno inferto, Andreas non riesce però a impedire che Theodora gli versi in bocca la pozione che dovrà fargli cambiare idea. Malauguratamente, però, il risultato non è quello che la maliarda si aspetta: anziché cadere ai suoi piedi il povero Andreas le muore sotto il naso, e per di più fra atroci tormenti.
Già, perché in una delle mille parentesi (per dire, c’è pure un ambasciatore merovingio che arriva da Lutezia, per la suggestione degli spettatori parigini) che ingolfano questo testo di calcolata banalità, messo in scena con straordinario splendore (ancora Stokes), eravamo venuti a sapere che anche la zingara, per tutta una serie di motivi sui quali qui conviene soprassedere per sopravvivere, voleva uccidere Giustiniano e aveva quindi preparato due pozioni, consegnando poi a Theodora, in un attimo di improvvida confusione, l’ampolla sbagliata.
Gran finale: venuto a conoscenza di tutto questo enorme pasticcio e delle orribili colpe della viziosa e perfida consorte, Giustiniano dà incarico a un eunuco di strangolarla. Theodora viene così omaggiata di una scena madre pensata ovviamente per il trionfo della diva, nella quale l’imperatrice dà l’addio ai propri servi e dona loro i suoi favolosi gioielli, poi scopre il bianco, etereo collo e lo porge al rosso laccio di seta dell’eunuco. Theodora muore così, e il sipario si chiude sulla visione di Costantinopoli, sullo sfondo, avvolta dalle fiamme. Non ho capito perché ma ce la facciamo andare bene, senza approfondire.
Artisticamente imbarazzante ma confezionato con la tecnica sublime del più scaltrito uomo di teatro, il testo di Sardou dava alla Bernhardt materiale per creare il personaggio indimenticabile di una eroina complessa e piena di contraddizioni, trasgressiva e vulnerabile, innamorata e crudele. E soprattutto bellissima nei cinque costumi che Théophile Thomas aveva disegnato apposta per la sua sua figura di leggendaria magrezza.
Quello che vediamo nella fotografia di Downey, utilizzato nella scena della loggia dell’ippodromo, era probabilmente il più favoloso di tutti. Tessuto in oro e argento, era tempestato di pietre preziose e completato da un incredibile copricapo, vero capolavoro di gioielleria liberty, e da un mantello con strascico in seta blu (lo vediamo nella prima delle due illustrazioni) interamente ricamato a pavoni.
Quello di Theodora, autentico paradigma della donna liberty, fu in assoluto il personaggio preferito di Sarah Bernhardt, interprete geniale che questa volta, tutti lo riconobbero, seppe trovare la ricetta magica per trasformare il princisbecco in oro.
Cavaliere, lei mi sorprende: l’ho lasciata col naso per aria in estatica ammirazione delle quadrature di Girolamo Mengozzi Colonna e, nel volger di una mezz’ora appena, eccola a stuzzicarci con questa, invero bellissima, maliarda.
Lo sguardo di Sarah (a differenza di quello più capricciosamente bambinesco dell’Adelina) è serio e volitivo e lascia presumere le infinite torture inflitte, da questa figlia di peripatetica, agli innumerevoli blasonati pronti a giocarsi ricchezza e onore per esserne mortalmente trafitti.
Ah, essere donna e poter fare come Sarah!
Beh, signor Pellico, lei sopravvaluta le mie scarse doti se pensa che abbia scritto in mezzora il pezzetto qui sopra. Come sempre è stato il frutto di due o tre dopocena, ma ormai ho imparato che i miei neuroni dopo le undici di sera sono inesorabilmente appannati e ottusi, per cui è meglio non pubblicare mai nulla seduta stante e rileggere il tutto in un momento di maggiore freschezza. Cosa che ho fatto, per l’appunto, ieri dopo la vivificante immersione nelle quadrature di Ca’ Pesaro.
Bellissimo post! Viene da rimpiangere che Illica e Giacosa non abbiano mai tentato una trasposizione.
Grazie! A me va bene anche solo quella rivestita della musica di Puccini, lunga probabilmente appena un terzo dell’originale ma emozionante tre volte tanto.
Magnifico post, splendida foto! E poi, per me Sarah Bernhard rappresenta qualcosa di particolarissimo assai, essendo stata ammiratissima (assieme all’altra grande attrice parigina dell’epoca Réjane) da Proust che a lei si riferisce quando dedica pagine e pagine della Recherche alla sua bellezza, alla sua arte, alla sua interpretazione della Phédre di Racine e ne fa una delle figure più straordinarie della sua opera presentandola sia mel momento in cui si trovava al culmine della bellezza e della gloria fino alle toccanti pagine della vecchiaia, della solitudine, della morte. Insomma, caro Cavaliero, Ella mi ha proprio toccata nei virgiliani precordi, con questo Suo post! 🙂
Si prepari Gabrlilu, questa era solo la prima puntata. Una seconda è in preparazione.
Slurp! 🙂