Wilhelm Grüning, o del gran gesto

I cantanti di oggi, come quelli di ieri, sono variamente dotati per quanto riguarda la recitazione. È vero che alcuni ne fanno un elemento fondamentale dell’interpretazione ma, diciamocelo, è raro che possano ricevere un aiuto concreto dai registi, di solito talmente persi nelle cabale della rilettura del testo da non curarsi minimamente di ciò che i cantanti dovrebbero fare. Quanti di loro, presi dall’imperativo di dover dire qualcosa di intellettualmente indimenticabile, si scordano del teatro e gestiscono il palcoscenico semplicemente regolando entrate e uscite? È già grasso che cola se non si inventano di far cantare qualcuno a testa in giù, dentro un sacco o con le mutande in testa, quando non senza del tutto. Chi vuole impegnarsi anche sul lato del corpo oltre che su quello della voce è costretto generalmente a fare tutto da sé. Coi cantanti di ieri il discorso era, mutatis mutandis, sicuramente simile nella sostanza, con la doppia differenza che da un lato la figura del regista demiurgo (o almeno convinto di esserlo) era ancora da inventare e che i cantanti potevano avvantaggiarsi di un repertorio di gesti e atteggiamenti che, certamente utilizzato con diversi livelli di perizia, doveva comunque evitare l’effetto non-so-che-fare-delle-mie-mani, così comune oggi.


Wilhelm Grüning, il tenore raffigurato in questa cartolina nel costume del wagneriano Rienzi, sapeva invece benissimo cosa farsene di mani e braccia. Basta guardarlo, qui e nelle due più sotto che avevo acquistato tempo fa, dove appare in due altri ruoli wagneriani. Questa gestualità così amplificata, così apparentemente sopra le righe ma in realtà così connaturata a quel manifesto dell’innaturale che è l’opera, potrebbe essere una risorsa fantastica in così tante occasioni. Molti diranno che certi atteggiamenti oggi ci farebbero ridere: io dico che nessuno si mette a ridere davanti alle foto di scena della Callas nella Norma o nella Medea, così come nessuno rideva quella volta che, a Bologna, vidi Raina Kabaiwanska nella Francesca da Rimini ricreare un autentico capolavoro di gestualità liberty. Pensate registi, pensate.


Di sicuro nessuno rideva quando Grüning appariva in scena nel ruolo di Rienzi, un’opera nella quale fu per lungo tempo considerato imbattibile. Cantò molte volte a Bayreuth negli anni 1889-1897 ma ovviamente non poté portarci il suo personaggio preferito, dato che l’opera non entra nel numero di quelle autorizzate ad essere rappresentate sulla verde collina. A Bayreuth Grüning dovette “accontentarsi” di essere Parsifal, Tannhäuser, Siegmund e Siegfried. Tenore eroico di voce possente, così lo definiscono Kutsch e Riemens, dovette però avere numerose frecce al proprio arco oltre a quelle dell’accento e della potenza. Grande wagneriano, fece infatti anche molto altro. Debuttò a ventitré anni, nel 1881 a Danzica, come tenore lirico e già verso l’85 iniziò ad affrontare ruoli di heldentenor, senza però mai abbandonare gli altri. Ancora nel 1900 cantava Ferrando in Così fan tutte e George Brown in La dame blanche, e negli anni dell’intera carriera riuscì a far stare uno accanto all’altro Tristano e Faust, Lionel della Marta e Samson, Radames e Raoul degli Ugonotti o Robert di Robert le diable, fino a Ägisth di Elektra, che cantò nella prima rappresentazione berlinese nel 1909. Viene da domandarsi se fosse lui un esempio-monstre o se la vocalità di ruoli oggi tutti declinati sul versante del volume e della potenza debba veramente essere così unilaterale. Se il tenore che questa mattina ho sentito cantare in televisione un Celeste Aida piatto quanto il rettilineo che unisce Chioggia a Marghera avesse pensato di cantare Radames come se fosse Ferrando, avrebbe potuto fare peggio di quello che ha fatto? Secondo me no. Pensate tenori, pensate.

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