Questo è stato uno dei due o tre colpi di fortuna che mi sono capitati nel corso del 2019. Il venditore non ha identificato il soggetto della foto e per di più deve averla considerata un mezzo pasticcio, per questo l’ha messa lì offrendola a poco più del prezzo cui solitamente si acquistano le cartoline. Perché parlo di pasticcio? Anche nella scansione si vede abbastanza chiaramente che la fotografia non è la solita sottilissima albumina col suo caratteristico viraggio seppia, incollata con precisione al cartoncino della cabinet card. Lo spessore di questa stampa è decisamente più grosso, la superficie è lucida, il viraggio manca quasi completamente, l’immagine è straordinariamente dettagliata anche se il signore ritratto deve aver mosso il gomito durante la posa. La prima impressione è quella di una fotografia relativamente moderna, molto più recente di quanto l’incollaggio a un cartoncino dell’atelier Pierre Petit, maldestramente realizzato perché il formato della stampa è troppo grande e nasconde gran parte della scritta al margine inferiore, potrebbe far pensare.
In realtà al primo esame diretto è risultato chiaro che non si trattava di una banale fotografia moderna: l’area dell’immagine è ulteriormente più spessa del supporto su cui si trova e la superficie è talmente lucida da dare l’impressione di essere rivestita di lacca. Vado dritto al finale: si tratta di un aristotipo, un termine per la verità un po’ generico che indica un gruppo di tecniche di stampa più o meno analoghe che prese piede alla metà degli anni Ottanta dell’Ottocento e restò in voga fino agli anni Venti del Novecento. Gli aristotipi possono essere realizzati su carta molto sottile oppure, come nel mio caso, su un supporto più spesso e molto frequentemente, in un caso come nell’altro, li si trova incollati ai tradizionali cartoncini delle cabinet card. Non è che tutta questa dissertazione tecnica fossi in grado di farla al momento, sono pur sempre solamente un curioso autodidatta. Ho dovuto approfondire a posteriori, dopo essermi accaparrato quasi sulla fiducia il non caro rettangolo di cartone e aver passato qualche mezzora a far confronti su alcuni manuali di cui nel tempo mi sono dotato. Ciò che principalmente mi ha convinto all’acquisto è stato il fatto che subito, quando ho visto la fotografia di questo supposto acteur à identifier, ho riconosciuto i tratti ormai per me ben noti del mio prediletto Jean Lassalle, che chi frequenta questo salotto dovrebbe conoscere ormai assai bene. Con quella balestra in mano e la penna di fagiano sul berretto, non ha certo bisogno di un bimbo con la mela in testa per essere identificato come Guglielmo Tell, il protagonista dell’ultimo capolavoro di Gioachino Rossini cavallo di battaglia nella carriera dell’imponente baritono.
Quello dell’eroe svizzero fu addirittura il ruolo del debutto all’Opéra di Parigi del venticinquenne Lassalle, la sera del 9 giugno 1872. Nato a Lione nel 1847, figlio di un commerciante di seta di cui era destinato a proseguire l’attività, si scoprì il sacro fuoco dell’arte, mollò tutto e se ne andò ragazzo a Parigi per diventar pittore. Invece che la mano finì per educare la voce, entrò al Conservatoire e ad appena diciannove anni debuttò sulla scena come St. Bris negli Ugonotti a Liegi. Fu l’avvio di una carriera subito intensa, che nel giro di sei anni lo portò all’Opéra. Da quel momento in poi, erede a tutti gli effetti di Jean-Baptiste Faure, Lassalle sarebbe stato per decenni uno dei punti di riferimento del massimo teatro di Francia e, di fatto, uno dei più grandi cantanti del diciannovesimo secolo. Il personaggio di Guglielmo Tell lo avrebbe accompagnato per tutta la carriera: in una scorsa veloce quanto superficiale ai periodici digitalizzati su Gallica ho trovato notizie di sue esibizioni all’Opéra in questo ruolo nel 1872, 1878, 1880 e 1891 e sicuramente ce ne furono molte di più. Una conferma indiretta che doveva trattarsi per lui di un appuntamento abituale ce la dà un trafiletto che ho trovato sul numero di La Liberté del 3 ottobre 1891: vi si annuncia che le recite previste in quei giorni dell’Hamlet di Thomas con Lassalle e Nellie Melba erano state rimandate per un permesso concesso alla Melba di prolungare la sua permanenza a Bruxelles; in sostituzione si sarebbe dato il Guillaume Tell col solo Lassalle, che evidentemente poteva riprendere senza difficoltà e senza preavviso un ruolo che gli doveva essere assolutamente abituale.
Imponente nell’aspetto quanto elegante nel canto, fu sempre paragonato al mitico Faure di cui il pubblico parigino lo considerò successore. Molte volte, soprattutto negli anni di attività al Metropolitan di New York (1892-98), divise la scena con Jean ed Edouard de Reszke, ai quali lo unì un’amicizia che durò tutta la vita. Possiamo solo immaginare i miracoli vocali e musicali ai quali questo trio di fuoriclasse, per non parlar delle signore che di regola condividevano la scena con loro, deve aver dato luogo. Fortunato chi poté sentirli, noi dobbiamo aggrapparci a quello sguardo diretto, a quel gomito mosso del nostro aristotipo per trovare un guizzo di vita in un’immagine scattata quando i nostri nonni e forse pure i bisnonni erano ancora di là da venire.
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