Molti anni fa trovai su una bancarella alcuni vecchi libretti d’opera, uno dei quali appariva particolarmente vecchio e interessante. Già il titolo manoscritto sulla copertina di carta azzurrina dichiarava una calligrafia antica, mentre l’etichetta con un numero faceva pensare alla provenienza di questo esemplare da una raccolta smembrata.
Il frontespizio fornisce le informazioni sull’occasione per la quale la pubblicazione fu realizzata, ovvero una serie di recite fiorentine nella primavera del 1828.
Alla pagina successiva viene data la lista degli interpreti. Qui cominciano le cose veramente interessanti perché fra loro si trovano, nei ruoli di Don Giovanni, Leporello, Don Ottavio e del Commendatore quattro nomi che fanno parte della storia del teatro d’opera italiano dell’Ottocento. Cliccando sulle immagini è possibile ingrandirle.
Nel 1828 Claudio Bonoldi era per i tempi un po’ avanti negli anni. Quarantacinquenne, era in carriera da un quarto di secolo avendo debuttato a Torino nel 1803. Il suo nome è legato per noi soprattutto a Gioachino Rossini e alle prime rappresentazioni assolute di La pietra del paragone (Scala, 1812), Sigismondo (Fenice, 1814), Armida (San Carlo, 1817) e Bianca e Falliero (Scala, 1819). Nel 1813 a Genova aveva partecipato alla creazione di La rosa bianca e la rosa rossa di Mayr, nel 1816 alla Scala di quella Testa di Bronzo di Carlo Soliva che aveva fatto gridare al miracolo Stendhal. Nel 1819, infine, al Regio di Torino aveva battezzato anche la Semiramide riconosciuta dell’ancora italianizzante Giacomo Meyerbeer.
Il suo Leporello, Pietro Vasoli, ha anch’esso importanti ascendenti rossiniani, essendo stato il primo Don Pacuvio nella Pietra del paragone, il primo Licinio nell’Aureliano in Palmira e il primo Prosdocimo nel Turco in Italia (Scala, 1812, 1813 e 1814). Nella Vie de Rossini Stendhal lo tratta malissimo e lo definisce cantante di terza categoria ma si sa che il francese parlò molto spesso di cose che non aveva né visto né sentito. Qui a Firenze, ci torneremo alla fine, riscosse giudizi molto più lusinghieri.
Al contrario di Bonoldi, il basso Carlo Ottolini Porto era nelle prime fasi della carriera ma di lì a qualche anno sarebbe stato chiamato a creare un buon numero di personaggi donizettiani. Avrebbe partecipato infatti alle prime assolute di Parisina e Rosmonda d’Inghilterra (Pergola, 1833 e 1834), Maria Stuarda e Lucia di Lammermoor (S. Carlo, 1834 e 1835). Praticamente debuttante era poi il tenore Giovanni Battista Genero, poco più che ventenne, che stava iniziando a farsi largo nel teatro nel nome di Rossini ma sarebbe anche divenuto più avanti il primo Nemorino dell’Elisir d’amore (Canobbiana, 1832).
La cosa che però attira maggiormente la curiosità in questa pagina è quanto detto nelle ultime righe:
Ci troviamo di fronte, naturalmente, a uno di quegli infiniti casi di sostituzione e interpolazione di numeri musicali che ancora nell’Ottocento erano prassi comune e che oggi sono diventati anche oggetto di studio di musicologi che ne hanno fatto una vera specializzazione. Un’usanza che a noi appare bizzarra e inconcepibile era cosa che accadeva quotidianamente. Quale soprano squilibrata e masochista si sognerebbe oggi di tagliare la scena della pazzia nella Lucia di Lammermoor per sostituirla con il rondò finale della Fausta? Eppure negli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento lo fecero in molte, compresa Giuseppina Strepponi non ancora signora Verdi. E allora andiamo a vedere che si trova in questa scena dodicesima dell’atto secondo.
La scena è quella che segue quella del cimitero e che vede lo scambio di battute fra Donna Anna e Don Ottavio, prima della grande aria di Donna Anna. Nel libretto tutto procede regolarmente con il recitativo, poi si gira pagina e…
non siamo più nel Don Giovanni. Questa Donna Anna, nella fiorentina Pergola, al posto di Non mi dir intonò Non più di fiori, il grande rondò di Vitellia dal secondo atto della Clemenza di Tito. Se l’aria soppressa è un sesto grado, non è che quella introdotta sia molto più facile, anzi. La francese Giuseppina Fabre Noel, quindi, non si volle certamente facilitare il compito. Probabilmente si sentiva più a suo agio con questo brano e riteneva che facesse fare miglior figura ai suoi mezzi. Questo, in fondo, era tutto quello che interessava, abbiamo cominciato molto dopo a preoccuparci (spesso anche troppo) dell’intoccabilità dello spartito.
La cosa interessante, a guardarci un po’ di fino, è che il cambio venne fatto per benino, adattando le parole laddove quelle originali non si confacevano alla situazione. Nella Clemenza Vitellia si arrende all’evidenza che i suoi sogni di gloria si sono infranti e dovrà espiare la colpa di aver tentato di far uccidere l’imperatore:
Stretta fra barbare / Aspre ritorte
Veggo la morte / Per me avanzar
Infelice! Qual orrore! / Ah, di me che si dirà?
Chi vedesse il mio dolore / Pur avria di me pietà.
Nel Don Giovanni Donna Anna fa semplicemente una lunga paternale all’eterno fidanzato e deve quindi accantonare immagini di pene e tormenti e limitarsi a un più contenuto:
Scossa da un barbaro / Colpo di Morte
Alla mia sorte / Non vi [vò?] pensar
Infelice, qual orrore / Ah di me che mai sarà.
Chi vedesse il mio dolore / Pur avria di me pietà.
Non so se la Fabre Noel si adeguasse a un uso più o meno diffuso nel proporre questa sostituzione oppure se l’idea sia stata la sua. Bisognerebbe indagare su altri libretti collegati ad altre rappresentazioni e cercare di compilare una casistica. Se fossi in pensione potrei anche farlo, adesso purtroppo no.
Però ho fatto un’altra piccola indagine a partire da questo libretto e nel gran calderone della rete ho trovato una recensione a questo spettacolo, uscita su I teatri. Giornale drammatico, musicale e coreografico. Che ci racconta come Bonoldi avesse sacrificato la gioventù del personaggio a una maggiore gravità nelle scene serie e come Vasoli andasse lodato si pel canto che per l’azione. Genero e Ottolini Porto vengono ignorati e così Elena Otto, Elvira. Di Adelaide Maldotti, Zerlina, si dice che sono sufficienti le lodi a lei fatte altre volte mentre della Fabre Noel si dice che ha una bella voce, ma si riconosce per francese anche alla pronunzia, e riguardo al canto, indugiamo a parlarne quando ella avrà ricuperato la pienezza della salute.
Se qualcosa cadde inesorabilmente in questa serata, fu il ballo che come d’abitudine seguiva l’opera: Il ballo Angelica e Medoro ebbe un esito infelice. Di questo pur taceremo, perché il gran male di esso non sta nell’aver difetti, ma nel mancar di vita. E col sano pragmatismo degli impresari di quel gran secolo il ballo fischiato fu sostituito da Il proscritto scozzese, azione mimica in tre atti di Giuseppe Sorentini, il cui canovaccio si trova pubblicato alle ultime pagine della mia copia del libretto. Squadra che perde, si cambia.
Applausi.
Molto interessante e coinvolgente! Tra l’altro la valutazione sul balletto me la salvo e credo che sarà riciclata vergognosamente e con notevole frequenza…vale per il 50% degli spettacoli odierni. Certo, poi c’è anche il 45% che fa schifo, ma scrivere smaccatamente male di un allestimento è banale 🙂
Ciao!