La rivelazione di Tancredi

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Una delle mie letture più ricorrenti da ragazzino era la monumentale Storia della musica di Andrea Della Corte e Guido Pannain. Dire lettura è dire un po’ troppo: quello che facevo era passare ore seduto a sfogliare uno o l’altro dei tre pesanti volumi rilegati in tela grigia, leggiucchiando qualcosa qua e là ma soprattutto imprimendomi nella memoria le moltissime illustrazioni. Naturalmente ciò che mi attirava di più era quello che riguardava la storia dell’opera (una malattia presa da giovane, quindi) e c’erano due titoli che esercitavano su di me una incredibile suggestione: Zenobia, regina de’ Palmireni, allora come oggi ignotissima opera di Tomaso Albinoni, e Tancredi di Rossini, in quei primi anni Settanta titolo altrettanto misterioso. Non so dire perché mi fossi fissato su questi due e non, per dirne una, sull’Ildegonda in carcere di Balfe; sta di fatto che Zenobia e Tancredi conservarono per sempre un posto nel mio cuore.
Con una differenza: che mentre la prima sarebbe rimasta un titolo e nulla più, della seconda dopo qualche anno si cominciò a parlare. Se ne occupò Martina Franca nel ’76, poi Roma nel ’77: a Roma cantava Marilyn Horne, lo spettacolo fu trasmesso anche in televisione e io finalmente potei avere un assaggio di questo miraggio così a lungo agognato. Non c’erano videoregistratori all’epoca, non c’era Youtube e quello che veniva trasmesso lo si vedeva una volta e poi spariva per sempre. A rivederlo oggi quello spettacolo era, visivamente, peggio che orribile. Non so più nemmeno dire cosa mi rimase nella testa dopo il passaggio televisivo: forse fu un lampo troppo breve e Tancredi restò appena poco più di un titolo.
Poi venne Venezia, e venne la Fenice che in quei primi anni Ottanta era veramente un teatro di livello internazionale. Io, già perso d’amore sconfinato per la-più-grande etc., avevo un abbonamento per studenti che costava due lire ma era raro che vedessi uno spettacolo solo una volta: il vecchio loggione era casa mia e quando c’era qualcosa che mi pareva un peccato non vedere anche da vicino, scendevo in platea per una recita. Non fumavo, non bevevo e i miei soldini li spendevo così.
Quando uscì il cartellone della stagione 1981-82 mi venne un colpo: l’opera di apertura era Tancredi, e Tancredi sarebbe stata Marilyn Horne e Amenaide sarebbe stata Lella Cuberli, che già amavo da quell’Orfeo ed Euridice fiorentino dal quale, per certi versi, era cominciato tutto.
Andai naturalmente all’incontro di presentazione dello spettacolo, che quella volta si tenne nella sala del teatro. Lo conduceva Giuseppe Pugliese, io ero seduto in una poltrona lungo il corridoio centrale e seguivo il suo discorso, quando a un certo momento si interruppe e disse qualcosa come: “guardate un po’ chi c’è”. Mi girai e mi trovai a nemmeno un metro della Horne, in piedi dietro di me ad ammirare la sala. Quello fu il secondo attentato alla sanità del mio cuore.
Non so dire esattamente quante recite vidi di quella produzione, di sicuro abbastanza per imparare l’opera praticamente a memoria. Abituato ai pompaggi un po’ eccessivi di certe registrazioni Decca, la prima impressione che ebbi della voce della Horne dal vivo fu quella di uno strumento piccolo. In fondo era così, ma si sa che la voce di chi sa cantare può anche essere piccola perché corre sopra l’orchestra e arriva ovunque nella sala. Ernesto Palacio e Nicola Zaccaria erano due accessori necessari alla completezza dello spettacolo, non eravamo ancora abituati a una Rossini renaissance che coinvolgesse anche le voci maschili e, insomma, ci accontentavamo. Ma con le signore il discorso cambiava. Già Eleonora Jankovic, Isaura, era bravissima e faceva sembrare un capolavoro la sua aria. Ma Marilyn Horne e Lella Cuberli oltrepassavano ogni mia aspettativa: per la prima volta facevo diretta esperienza di cosa sia il virtuosismo trascendentale e di come il belcanto (termine abusatissimo e quasi sempre usato a sproposito) possa assurgere a dimensione estetica. Di tutte quelle sere ce ne fu una in particolare (guardando le date sul programma di sala direi che fu quella dell’8 gennaio 1982, perché ricordo che era una recita fuori abbonamento) nella quale l’intesa fra le due cantanti fu ancora più fenomenale del solito, il virtuosismo dei loro duetti ancora più elettrizzante, al punto che il pubblico sembrava non potesse nemmeno più restare fermo sulle proprie sedie. Fu una di quelle serate che capitano poche volte nella vita, nelle quali non si assiste “solo” a una grande esecuzione ma c’è qualcosa di più, qualcosa che resta vivo nel ricordo anche dopo più di trent’anni. Avrei riascoltato entrambe più volte ancora, in esecuzioni a volte divenute pura mitologia, ma quella recita di Tancredi alla Fenice resta intatta al vertice dei miei ricordi. E fu, nemmeno a dirlo, un ulteriore non piccolo attentato all’integrità del mio muscolo cardiaco.

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